(raccolte da Aleksandr Nikolaevic Afanas'ev)




’erano una volta un vecchio e una vecchia che avevano due figlie. Il vecchio un giorno si recò in città e acquistò ad una sorella un pesciolino e all’altra pure un pesciolino. La maggiore mangiò il suo pesciolino, invece la più giovane andò al pozzo e disse:
- Pesciolino diletto! Ti devo mangiare o no!
- Non mangiarmi – rispose il pesciolino – rigettami nell’acqua, io ti sarò utile.
La ragazza mise il pesciolino nel pozzo e ritornò a casa. La madre non amava per nulla la sua figlia minore. Fece mettere alla sorella il vestito più bello e si recò con lei in chiesa alla messa, invece alla più piccola lasciò due misure di segale e le ordinò di pulirla prima che loro rincasassero dalla chiesa.
La giovane s’incamminò a prendere l’acqua e sedette accanto al pozzo a piangere, il pesciolino nuotò verso la superficie e le chiese:
- Perché piangi, bella fanciulla?
- E come non piangere? – rispose la bella ragazza. – Mia madre ha fatto indossare a mia sorella il vestito più bello, ed è andata con lei a messa, ha lasciato me a casa e mi ha ordinato di pulire due misure di segale prima del suo ritorno dalla chiesa!
Il pesciolino le disse:
- Non piangere, va a vestirti e va in chiesa, la segale sarà pulita!
La ragazza si vestì e andò alla messa. La madre non la riconobbe. Quando la messa fu al termine, la ragazza ritornò a casa, anche la madre, e sopraggiunta a casa le chiese:
- Allora, stupida, hai pulito la segale?
- Si – rispose lei.
- A messa c’era una bella ragazza! – raccontò la madre. – Il pope non cantava, non leggeva, e non faceva altro che guardarla, tu invece, sciocca, guardati un po’ come sei insudiciata!
- Non c’ero, ma lo so! – disse la ragazza.
- Ma che cosa vuoi saperne tu? – le disse la madre.
Un’altra volta la madre fece mettere alla figlia maggiore il vestito più bello, andò con lei alla messa, invece alla minore lasciò tre misure d’orzo e le disse:
- Nel frattempo chi io prego Dio, tu pulisci l’orzo.
Dopo andò a messa. La figlia, si recò a prendere acqua, sedette accanto al pozzo e pianse. Il pesciolino nuotò verso la superficie e le chiese:
- Perché piangi, bella ragazza?
- E come non piangere? – rispose la bella fanciulla. – Mia madre ha fatto indossare a mia sorella il vestito più bello, ed è andata con lei a messa, ha lasciato me a casa e ha ordinato di pulire tre misure d’orzo prima del suo ritorno dalla chiesa.
Il pesciolino le disse:
- Non piangere, va a vestirti e raggiungila in chiesa: l’orzo sarà pulito!
Lei si vestì, arrivò in chiesa, incominciò a pregare Dio. Il pope non cantava, non leggeva e non faceva altro che guardarla! La messa terminò.
Quel giorno alla messa c’era un principe del posto, la nostra bella fanciulla lo conquistò molto, volle conoscerla, chi era? Per avere l'occasione di parlarle le gettò della resina sotto una scarpa. La scarpa rimase attaccata a terra, ma lei andò a casa.
- Sposerò – disse il principe – la padrona di questa scarpa!
La scarpa era tutta decorata in oro. La vecchia arrivò a casa e iniziò a raccontare:
- Che bella ragazza c’era! Il pope non cantava, non leggeva e non faceva che guardarla, tu invece stupida guardati un po’, sei una vera pezzente!
Nel frattempo il principe cercava da ogni parte la ragazza che aveva perso la scarpa, ma non riuscì a trovare in nessun luogo una ragazza cui la scarpa stesse a pennello. Arrivò anche dalla vecchia e le disse:
- Fammi guardare tua figlia, chissà se questa scarpa le andrà bene?
- Mia figlia insudicerà la scarpa – rispose la vecchia.
Invece diventò la bella ragazza, il principe le misurò la scarpa. La scarpa le stava perfetta. Il principe la sposò, incominciarono a vivere felici e contenti, e furono sempre ricchi.

i sono stato ho bevuto del moscato, sui miei baffi è sgusciato, ma in bocca non è giunto. Mi hanno dato un vestito blu, una cornacchia che vola e grida:
- Blu il vestito! Blu il vestito.
Rifletto “ Giù il vestito!”, ho preso e me lo sono tolto. Mi hanno dato un cappello, mi hanno picchiato con un manganello. Mi hanno dato delle scarpette laccate, la cornacchia vola e grida:
- Laccate le scarpette! Laccate le scarpette!
Rifletto “ Rubate le scarpette “, ho preso e le ho buttate.






’erano una volta un vecchio e una vecchia, un giorno il brav’uomo se n’andò nella foresta a fare legna. Scelse un vecchio albero, alzò la scure e stava per colpirlo, quando l’albero gli disse:
- Risparmiami, contadino! Farò tutto quello che mi chiederai.
- Allora fammi diventare ricco.
- D’accordo: torna a casa e avrai tutto ciò che desideri.
Il vecchio tornò a casa, izbà nuova, ogni cosa in abbondanza, soldi a palate, grano per decine d’anni, e vacche, cavalli e pecore che non si potevano contare in tre giorni!
- Ah, vecchio, da dove proviene tutto questo? – domandò la moglie.
- Ecco moglie mia, mi è successo che un albero esaudisce ogni mio desiderio.
Dopo un mese circa, la moglie n’ebbe abbastanza della sua ricca casa e disse al marito:
- A che serve essere ricchi, se la gente non ci rispetta! Il borgomastro, se vuole, può spedirci a lavorare e con un pretesto può anche bastonarci. Vai dall’albero e chiedigli di farti diventare borgomastro.
Il vecchio prese con se la scure, e si recò dall’albero, deciso a tagliarlo alla radice.
- Che cosa vuoi? – domandò l’albero.
- Fammi diventare borgomastro.
- D’accordo, vai con Dio.
Al suo ritorno, il vecchio trovò dei soldati che lo attendevano.
- Vecchio diavolo, te ne vai a zonzo? – iniziarono a gridare. – trovaci in fretta un alloggio, e che sia buono. Su, datti da fare!
Ed iniziarono a picchiarlo con il piatto delle loro spade. La vecchia notò che anche il borgomastro non sempre è tenuto in alta considerazione, e disse al vecchio:
- Ecco cosa si guadagna ad essere la moglie del borgomastro! Dei soldati ti hanno picchiato, e non parliamo del padrone che fa quel che vuole. Torna dall’albero e chiedigli di far diventare te, un signore, e me una gran dama.
Il vecchio prese la scure, andò dall’albero con l’intenzione di tagliarlo, ma l’albero gli chiese:
- Che cosa vuoi, vecchio?
- Cambia me in signore e la mia vecchia in una gran dama.
- D’accordo, vai con Dio!
La vecchia, divenuta e una gran dama, volle ancora di più; e disse al marito:
- Per quello che si guadagna ad essere una gran dama! Se tu fossi un colonnello e io tua moglie, sarebbe differente, tutti c’invidierebbero.
Spedì ancora una volta il vecchio dall’albero, prese con se la scure, andò dall’albero, si apprestava a reciderlo quando l’albero gli chiese:
- Che cosa vuoi?
- Cambia me in colonnello e la mia vecchia in colonnella.
- D’accordo, vai con Dio!
Il vecchio ritornò a casa e fu nominato colonnello. Dopo un po’ di tempo, la vecchia gli disse:
- Bell’affare essere colonnello! Il generale, se gli gira, è capace farti arrestare. Vai dall’albero e chiedigli di farti diventare generale e me generalessa.
Il vecchio tornò dall’albero, deciso a tagliarlo con la scure.
- Che cosa vuoi? – chiese l’albero.
- Cambia me in generale e mia moglie in generalessa.
- D’accordo, vai con Dio!
Il vecchio tornò a casa, e fu promosso generale. Ma dopo un po’ di tempo, la vecchia fu di nuova stanca anche di essere una generalessa, disse al vecchio:
- Bell’affare essere generale! Il sovrano, se gli gira, è in grado spedirti in Siberia. Vai dall’albero e chiedigli di cambiare te in zar e me in zarina.
Il vecchio ritornò all’albero, con la sua scure.
- Che cosa vuoi? – domandò l’albero.
- Cambia me in zar e mia moglie in zarina.
- D’accordo, vai con Dio?
Il vecchio tornò di nuovo a casa e trovò gli emissari che gli dissero:
- Il sovrano è deceduto e tu sei stato scelto per succedergli.
I due non regnarono a lungo, alla vecchia sembrò poco essere zarina, perciò si rivolse il vecchio e gli disse:
- Bell’affare essere zar! Se Dio vuole, può farti morire e ti seppelliranno nell’umida terra. Torna dall’albero e chiedigli di modificarci in divinità.
Il vecchio si recò dall’albero. Che dopo aver ascoltato dei propositi tanto insensati, rispose al vecchio, facendo tremare le foglie:
- Che tu sia un orso e tua moglie un’orsa.
In quell’istante il vecchio si trasformò in orso e la vecchia in orsa, e si addentrarono correndo nella foresta.





'erano un tempo un uomo e una donna. L'uomo rimase vedovo e sposò un'altra donna; ma dalla prima moglie aveva avuto una figlia. La cattiva matrigna non voleva bene alla figliastra, la batteva e pensava come poteva fare per liberarsene del tutto.
Un giorno il padre partì, e la matrigna disse alla bambina:
"Va' da tua zia, mia sorella, e chiedile ago e filo, per cucirti una camicetta".
Ma questa zia era una "baba-jaga", gamba d'osso.
Però la bambina non era stupida, e andò prima da un'altra zia, sorella della sua vera madre.
"Buongiorno, zietta!"
"Buongiorno, cara! Qual buon vento ti porta?"
"La mia matrigna mi ha detto di andare da sua sorella a chiedere ago e filo, per cucirmi una camicetta."
La zia le disse: "Nipotina mia, là dove andrai ci sarà una betulla che vorrà graffiarti sugli occhi: tu legala con un nastrino; ci sarà un portone che cigolerà e vorrà sbatterti in faccia: tu versagli un po' d'olio sui cardini, ci saranno dei cani che vorranno morderti: tu getta loro del pane; e un gatto vorrà cavarti gli occhi: tu dagli un po' di prosciutto".
La bambina andò: eccola che cammina, cammina e finalmente arriva. C'era una capanna; dentro, la "baba-jaga" gamba d'osso, seduta, fila.
"Buongiorno, zietta!"
"Buongiorno, carina!"
"Mi ha mandato da te la mamma a chiederti ago e filo, per cucirmi una camicetta."
"Benissimo, intanto, mettiti a filare."
Ecco che la bambina si sedette al telaio, mentre la "baba-jaga" uscì e disse alla sua aiutante:
"Va', scalda il bagno e lava la mia nipotina, ma bada di farlo per benino: me la voglio mangiare per colazione".
La bambina se ne restò seduta più morta che viva, tutta spaventata, e pregò l'aiutante:
"Non accendere più legna dell'acqua che versi, e l'acqua portala con un setaccio", e le regalò un fazzoletto.
La "baba jaga" aspettava; poi andò alla finestra e domandò: "Stai filando, nipotina, stai filando mia piccina?"
"Sto filando, cara zia, sto filando".
La "baba-jaga" si allontanò e la bambina diede il prosciutto al gatto e gli chiese: "Non si può fuggire di qui in qualche modo?"
"Eccoti un pettinino e un asciugamano" disse il gatto, "prendili e scappa; la "baba-jaga" ti inseguirà, ma tu poggia l'orecchio a terra e appena senti che s'avvicina, getta via prima l'asciugamano: nascerà un fiume, largo largo; se la "baba-jaga" riuscirà ad attraversarlo e ricomincerà ad inseguirti, tu poggia di nuovo l'orecchio al suolo e, quando senti che s' avvicina, getta il pettinino: nascerà un bosco, fitto fitto; quello non potrà oltrepassarlo davvero!"
La bambina prese l'asciugamano e il pettinino e fuggì: i cani la volevano sbranare, ma essa gettò loro il pane, e quelli la lasciarono passare; il portone voleva sbattere e chiudersi, ma essa gli versò un po' d'olio sui cardini, e quello la lasciò passare; la betulla voleva strapparle gli occhi, ma la bambina la legò con un nastrino, e quella la lasciò andare.
Intanto il gatto si mise al telaio a filare: ma, più che filare, fece un gran pasticcio! La "baba-jaga" si avvicinò alla finestra e domandò:
"Stai filando, nipotina, stai filando, mia piccina?"
"Sto filando, cara zia, sto filando!" rispose brusco il gatto.
La "baba-jaga" si precipitò nella capanna, vide che la bambina era fuggita e giù botte al gatto! Lo sgrido perché non aveva graffiato la bambina sugli occhi.
"E' tanto tempo che ti servo" rispose il gatto, "e non mi hai mai dato nemmeno un ossicino; lei invece mi ha dato un pezzo di prosciutto!"
La "baba-jaga" si scagliò contro i cani, il portone la betulla e l'aiutante, e giù a picchiare e a sgridare tutti! I cani le dissero:
"Ti serviamo da tanto tempo e non ci hai mai dato neppure una crosta bruciacchiata; lei invece ci ha dato il pane!".
La betulla disse: "E' tanto che ti servo, e non mi hai legata neppure con un filo; lei invece mi ha ornata con un nastrino".
L'aiutante disse: "Ti ho servita per tanto tempo, e tu non mi hai regalato nemmeno uno straccio; lei, invece, mi ha regalato un fazzoletto".
La "baba-jaga" gamba d'osso balzò rapidamente a cavallo del mortaio, lo incitò col pestello, lo guidò con la scopa e si gettò all'inseguimento della bambina.
La bambina poggiò l'orecchio a terra e sentì che la "baba-jaga" l'inseguiva e s'avvicinava, prese l'asciugamano e lo buttò via: nacque un fiume largo largo! La "babajaga" arrivò al fiume e per la rabbia digrignò i denti, tornò a casa, prese i suoi buoi e li sospinse verso il fiume: i buoi se lo bevvero tutto.
La "baba-jaga" si lanciò di nuovo all'inseguimento. La bambina poggiò l'orecchio al suolo, sentì che la "baba-jaga" era vicina, e gettò il pettinino; nacque un bosco, fitto da far paura! La "baba-jaga" cominciò a rosicchiarlo, ma, per quanto facesse, non riuscì a rosicchiarlo tutto e tornò indietro.
Intanto il padre era tornato a casa e aveva chiesto: "Dov'è mia figlia?"
"E' andata dalla zia" aveva risposto la matrigna.
Un po' più tardi tornò a casa anche la bambina.
"Dove sei stata?" le chiese il padre. "Ah, piccolo padre!" dice lei, "Così e così, la mamma mi ha mandato dalla zia a chiedere ago e filo, per cucirmi una camicetta, ma la zia è una "baba-jaga" e voleva mangiarmi."
"Come hai fatto a scappare, figlia mia?"
"Così e così", raccontò la bambina.
Il padre quando ebbe saputo tutto, si arrabbiò con la moglie e le sparò col fucile.
Da quel giorno visse con la figlia, felice e contento; a far baldoria con loro anch'io son stato, molto idromele ho bevuto; ma sui baffi m'è colato, nella bocca nulla è andato!







'era una volta un mercante. In dodici anni di matrimonio aveva avuto solo una figlia, Vassilissa, che era bellissima.
Sua moglie morì quando la piccola aveva otto anni. Sentendo la fine avvicinarsi, la madre chiamò a sé la bambina, e da sotto le coperte tirò fuori una bambolina che come Vassillissa indossava stivaletti rossi, grembiulino bianco, gonna nera e corsetto ricamato e le disse:
“Ascolta le mie ultime parole, e ubbidisci alle mie ultime volontà. Prendi questa bambola, è il mio dono per te con la mia benedizione materna; conservala con cura, non mostrarla a nessuno, e nutrila quando ha fame. Se ti troverai in difficoltà, chiedile aiuto, essa ti dirà che cosa fare.”
La donna strinse forte a sé la figlia e morì. La bambina e suo padre a lungo piansero e si disperarono.
Il vedovo era un bell’uomo, che piaceva a molte donne, ma quando decise di risposarsi, egli si scelse in moglie una donna molto più giovane di lui, che era anch’essa vedova con due figlie della stessa età della sua bambina. La sua nuova moglie era una donna di classe, dai modi educati, insomma, appariva come un’ottima padrona di casa, eppure scelse la matrigna sbagliata per Vassilissa, poiché non era buona e affettuosa nei confronti della bambina.
La matrigna e le sorellastre erano invidiose della bellezza di Vassilissa.
La tormentavano di continuo impartendo ordini su ordini, e la caricavano di lavoro per farsi servire da lei tutto il tempo, e la mandavano anche a tagliare la legna, per far sì che il vento e il sole le rovinassero la pelle, e che il lavoro duro la facesse deperire.
Ma Vassilissa sopportava tutto senza mai lagnarsi né commiserarsi, e diventava ogni giorno più bella, aveva sempre un aspetto più candido e grazioso, mentre la matrigna e le sue figlie, le quali non uscivano mai e non muovevano mai un dito, al contrario diventavano sempre più brutte e si logoravano sempre più dall’invidia.
Esse non sapevano che Vassilissa aveva la bambolina che l’aiutava nelle incombenze, infatti, senza di essa la bambina non avrebbe mai potuto fare tutto da sola. La sera, quando tutti dormivano, la giovinetta si chiudeva nel suo angolino, a dar da mangiare alla fedele bambola e, infelice si sfogava con lei delle sue disgrazie:
“Bambolina mia, mangia ed ascolta le mie pene! Triste è la casa di mio padre, la matrigna cattiva vuole la mia morte. Dimmi, cos’è che devo fare?”
La bambola mangiava, poi consolava Vassilissa, la consigliava e al mattino faceva tutto il lavoro al suo posto.
Vassilissa si riposava all’aria fresca, coglieva dei fiori, si occupava dell’orto, puliva e preparava le verdure e le mise sul fuoco che aveva acceso. La bambola le indicò inoltre una preziosa erba contro gli arrossamenti della pelle.
Vassilissa crebbe e divenne una donna in età da marito. Tutti i ragazzi domandavano la sua mano, e nessuno sembrava interessato invece alle sue sorellastre. Allora la matrigna si mise a maltrattare ancora di più la figliastra e rispondeva ai pretendenti:
“Non farò mai sposare la mia figlia minore prima delle mie primogenite!”
E quando i giovani uomini se andarono, ella picchiò la figliastra per vendicarsi.
Un giorno il mercante dovette partire per un lungo viaggio, e la matrigna se ne andò ad abitare in una casa ai margini della foresta in cui viveva Baba-Jaga, la vecchia strega. Questa non lasciava nessuno avvicinarsi alla sua casa e aveva fama di essere mangiatrice di uomini.
Sperando prima o poi di sbarazzarsi di Vassilissa, la matrigna la mandava tutto il tempo nella foresta, in cerca di questo o quello, o a far legna, confidando che qualcosa di male potesse accaderle. Ma la ragazza tornava invece a casa ogni volta, grazie alla guida della bambola, che la teneva lontana dalla casa della strega.

Venne l’autunno. Le ragazze trascorrevano le lunghe serate l’una lavorando al merletto, l’altra a fare la maglia, e Vassilissa a filare il lino. La matrigna dava loro dei compiti per la notte e poi se ne andava a letto, lasciando solo una candela accesa a loro che lavoravano. Poi una delle sue figlie spense la candela con una pinza come la madre le aveva ordinato.
“Che disgrazia! Non abbiamo ancora finito il lavoro e non c’è più fuoco in casa e ora siamo al buio. Bisogna andare a chiederlo a Baba-Yaga! Chi ci va?”
“Io no” disse quella che stava lavorando al merletto “per me non ce n’è bisogno, coi miei spilli ci vedo bene!”
“Nemmeno io” disse l’altra “I miei aghi luccicano, quindi ci vedo bene lo stesso”
E tutte e due si rivolsero a Vassilissa: “Tu hai più bisogno di noi di luce, quindi tocca a te andare a cercare il fuoco da Baba-Yaga!”
E così dicendo la spinsero via dalla stanza. Vassilissa corse nel suo angolino per dare da mangiare alla bambola, e le disse in lacrime:
“Bambolina mia, mangia e ascolta la mia pena! Vogliono che vada da Baba-Yaga. Mi divorerà!”
“Non piangere” le rispose la bambola. Prendimi con te e portami tranquillamente là dove devi andare. Mentre io sono con te non può succederti niente.”
Vassilissa si mise in tasca la bambola e si rassegnò ad addentrarsi nella foresta oscura.
Nel bosco l'oscurità si faceva sempre più fitta, e i ramoscelli che le scricchiolavano sotto i piedi la riempivano di paura. Infilò la mano nella tasca del grembiule, dove nascondeva la bambola che la mamma le aveva dato, e subito si sentì meglio. E a ogni biforcazione Vassillissa infilava la mano nella tasca e consultava la bambola, e la bambola le indicava da che parte andare.
Improvvisamente un uomo vestito di bianco su un cavallo bianco passò al galoppo, e il cielo si fece più chiaro.
Poi proseguì il cammino e vide un altro cavaliere: questo era tutto rosso, vestito di rosso su un cavallo rosso. E allora si alzò il sole.
Solo verso sera Vassilissa giunse alla capanna di Baba-Yaga. La casa era fatta di ossa, di teschi e di occhi, ed era sorretta da colonne fatte di gambe umane. Le maniglie delle porte e delle finestre erano fatte con dita di mani e piedi umani, e il chiavistello era un grugno di denti appuntiti.
La povera ragazza tremò come una foglia vedendo tutto questo orrore, e in quel mentre giunse un terzo cavaliere tutto nero a bordo di un cavallo nero.



A quel punto era notte, e gli occhi dei teschi si accesero, cosicché tutto intorno era luce come se fosse giorno. Vassilissa avrebbe voluto scappare e salvarsi, ma per la paura non riuscì a muovere un passo.
Di colpo si fece buio pesto nella foresta, mentre le foglie degli alberi frusciavano in modo sinistro, la spaventosa strega apparse. Veramente orrenda, viaggiava su un mortaio che si spostava da solo. Guidava questo veicolo con un remo a forma di pestello, e intanto cancellava le tracce alle sue spalle con una scopa fatta con capelli di persone morte da gran tempo. E il mortaio volava nel cielo con i capelli grassi di Baba-Yaga che svolazzavano dietro. Il lungo mento era ricurvo verso l'alto e il lungo naso verso il basso, così si incontravano al centro. Aveva una barbetta a punta tutta bianca e verruche sulla pelle. Le unghie nere erano spesse e ricurve e tanto lunghe che non poteva chiudere la mano a pugno.
Gridò a Vassilissa: “Sento odor di carne umana. Chi c’è qui?!”
Tutta tremante di paura, la povera ragazza s’avvicinò timidamente:
“Sono io, signora nonna, sono venuta perché le mie sorellastre mi hanno mandata a cercare legna per riaccendere il fuoco”
“Si, va bene, le conosco” rispose Baba-Yaga. Resterai qui per servirmi. Se farai un buon lavoro ti darò quel che cerchi, altrimenti ti mangerò!”
“Servimi a tavola tutto quello che c’è nel forno, e sbrigati, perché ho fame!”
Nel forno c'era cibo per dieci persone e Baba-Yaga lo mangiò tutto, lasciando una piccola crosta e un cucchiaio di minestra per Vassilissa.
"Lavami i vestiti, scopa il cortile e la casa, e separa il grano buono da quello cattivo e vedi che tutto sia in ordine. Se quando torno non avrai finito sarai tu il mio banchetto".
E Baba-Yaga volò via sul suo mortaio. E cadde di nuovo la notte.
“Domani, dopo che sarò andata via, spazzerai per bene in casa, pulirai dappertutto, mi preparerai la cena e farai il bucato. Poi macinerai il frumento. E bada bene che tutto sia ben fatto, altrimenti ti mangerò!”
Quindi andò a letto e russò fragorosamente. Vassilissa nutrì la bambola con i pochi resti della cena della strega e le disse piangendo:
“Piccola bambola, mangia bene e ascolta le mie pene! Se non faccio tutti questi lavori, Baba-Yaga mi mangia!”
“Non piangere, bambina,” le rispose la bambola. “Dormi tranquilla, che il mattino ha l’oro in bocca!”
Vassilissa si alzò prima dell’alba, ma la strega se ne era già andata. Presto gli occhi dei teschi si spensero e venne il cavaliere bianco e si fece giorno, e poi arrivò anche il cavaliere rosso.
Rimasta sola, fece il giro della casa, aspettando di trovare una mole di lavoro da fare e chiedendosi da dove avrebbe cominciato, quando vide che tutto era già stato messo a posto e tutto era fatto, mentre la bambola stava finendo di macinare gli ultimi chicchi di grano. Allora Vassilissa la baciò e:
“Come posso ringraziarti, mia adorata bambola! Tu mi hai salvato la vita!”
La bambola si arrampicò sulla tasca e disse: «Tu devi solo preparare il pranzo, poi potrai riposarti.”
La sera la tavola era pronta, presto il cavaliere nero venne e fu notte. Gli occhi dei teschi si erano nuovamente illuminati, le foglie sibilavano sinistramente, ed ecco che Baba-Yaga tornò. Vassilissa le corse incontro.
La strega le domandò se aveva fatto tutto.
“Vedi tu stessa, signora” rispose la giovane.
La strega ispezionò la casa, guardò dappertutto e non trovò niente da ridire, e grugnì: “Va bene, può andare..”
Chiamò poi i suoi fedeli servitori perché macinassero il frumento, e tre paia di mani comparvero a mezz'aria e cominciarono a raschiare e a pestare il frumento. La pula volava per la casa come una neve dorata. Quando fu tutto finito Baba-Yaga si sedette a mangiare. Mangiò per ore e ordinò a Vassillissa di pulire di nuovo tutta la casa, di scopare il cortile e lavarle i vestiti.
“Domani, oltre a quello che hai fatto oggi, dovrai setacciare, in quel mucchio di sporcizia, molti semi di papavero. Voglio una pila di semi di papavero e una pila di sporcizia, ben separati, altrimenti ti mangio!".
Si mise a letto e russò subito. Vassilissa mise da mangiare alla bambola e questa le disse come la sera prima:
“Vai pure a dormire tranquilla, tutto sarà fatto per quando tornerà domani sera, Vassilissa cara. Abbi fede, che il mattino ha l’oro in bocca!”
L’indomani, la strega partì, e Vassilissa e la bambola si diedero da fare in casa. Al suo ritorno, la strega esaminò il lavoro, guardando minuziosamente in tutti gli angoli della casa, e non trovò niente da dire, e chiamò i fedeli servitori come la sera prima affinché spremessero per bene i semi di papavero, e tre paia di braccia apparvero per obbedire alla strega. Quindi si mise a tavola, Vassilissa la servì in silenzio e la strega borbottò:
“Perché te ne stai senza proferir parola, tutta muta?”
“E’ che non oso, signora! Ma se me lo permetti, vorrei domandarti una cosa.”
“Domanda pure, ma ricordati che troppo saprai, presto invecchierai”
Vassillissa chiese dell'uomo bianco sul cavallo bianco.
“Quello è il mio giorno” rispose la strega.
“E quell’altro tutto vestito di rosso, chi è?”
“Quello è il mio sole ardente” rispose ancora.
“E poi ho visto anche un cavaliere nero” aggiunse Vassilissa.
“Quello è la mia notte fonda” rispose Baba-Yaga “Sono tutti e tre miei servitori fedeli!”
Vassilissa pensò ora agli altri tre, e tacque. Baba-Yaga disse: “Bhè? Non mi fai più domande?”
“No nonna. Come tu stessa hai detto, troppo saprai, presto invecchierai. Ora io so abbastanza”
“E brava” disse approvando la strega “hai voluto sapere di ciò che hai visto fuori, non su quel che succede dentro. Io sono abituata a lavarmi i panni in casa, quindi quelli che sono troppo curiosi io me li mangio!
E adesso è il mio turno di farti una domanda: come fai a fare tutti i lavori che ti assegno?”
“Con la benedizione della mia mamma che mi viene sempre in aiuto, signora.”
“Ah, è così, allora? Ebbene, ragazza benedetta, vattene, vattene subito di qui! Non ne voglio, di benedetti, in casa mia!”
E Baba-Yaga cacciò via Vassilissa, ma prima di chiudere la porta prese un teschio con gli occhi ardenti, e li mise su un bastone che le mise in mano a Vassilissa.
“Ecco il fuoco per le figlie della tua matrigna, prendilo! Dopo tutto, è per questo motivo che ti hanno mandata qui.”
Vassilissa se andò correndo nella foresta. Gli occhi del cranio le rischiaravano il cammino e si spensero solo all’alba. Camminò tutta la giornata, e verso sera, come giunse a casa, si disse: “Forse dopo tutto questo tempo si saranno procurate sicuramente altro modo di accendere il fuoco..” e pensò di gettare via il teschio, ma una voce le disse:
“Non buttarmi via, portami dalla tua matrigna!”
Vassilissa obbedì. Quando arrivò, si sorprese non poco di trovare la casa al buio, e più ancora il suo sbigottimento crebbe nel vedere la matrigna e le sorellastre accoglierla a braccia aperte.
Da quando era andata nella foresta, le dissero, non avevano più avuto modo di accendere il fuoco.
“Forse il tuo durerà di più” disse la matrigna.
Vassilissa portò dentro il cranio, e gli occhi ardenti si fissarono sulla matrigna e sulle sue figlie, seguendole dappertutto.
Invano esse tentarono di fuggire o di nascondersi, gli occhi le perseguitarono ovunque e prima dell’alba di loro rimasero solo le ceneri. Solo a Vassilissa non avevano fatto alcun male.
Al mattino Vassilissa sotterrò il cranio, sbarrò la porta e se ne andò in città, dove una vecchia signora l’ospitò nell’attesa che ritornasse il padre.
Un giorno, Vassilissa domandò all’anziana signora:
“Mi annoio a non far niente tutto il giorno, signora nonna! Se mi comprate del lino, io lo filo tutto!”
La vecchia le portò il lino e la ragazza si mise al lavoro, e il filo scorreva veloce tra le sue dita.
Finito che ebbe di filarlo, volle mettersi a tesserlo, ma c’era ancora la sua bambola che l’aiutava e le creò un bel lavoro.
Vassilissa si rimise all’opera e alla fine dell’inverno la tela era tessuta, così graziosa e sottile che avrebbe potuto farla passare per la cruna di un ago! A primavera fece sbiancare la tela, e Vassilissa disse alla vecchia signora:
“Và al mercato, nonna, vendi questa tela e tieniti i soldi che ne ricaverai.”
Ma la vecchia esclamò:
“Ma tu scherzi, mia cara! Un tessuto di tale pregio, merita di essere portato allo Zar.”
Ella si piazzò davanti al palazzo, e cominciò a passeggiare davanti alle finestre. Lo Zar la notò e la chiamò:
“Che fai lì, buona signora? Che cosa vuoi?”
“Ti porto una merce rara, come Vostra Maestà può vedere.”
Lo Zar fece entrare la vecchia e si meravigliò della tela:
“Quanto chiedi per questo tessuto, buona signora?”
“Una così preziosa stola non ha prezzo! Nessuno ha abbastanza denaro per comprarla, e solo lo Zar può averla. Te la regalo!”
Lo Zar ringraziò la vecchia che se ne andò carica di doni.
Lo Zar diede la stola ai suoi sarti, affinché ne facessero delle camicie. Essi fecero i modelli, ma riguardo al cucito, non ci fu nulla da fare! Nessun sarto osò toccare una tela di tal pregio.
Lo Zar, impaziente, andò a cercare la vecchia e le disse:
“Poiché tu hai tessuto la tela, tu sarai in grado di cucirmi le camicie!”
“Questa tela non è frutto delle mie mani, la mia figliola adottiva l’ha filata e tessuta.”
“Sta bene, sarà lei a cucire le mie camicie!”
Quando la vecchia raccontò la faccenda, Vassilissa sorrise:
“Lo sapevo che non poteva passare per lavoro fatto dalle mie mani!” e si mise a cucire.
La dozzina di camicie fu pronta in un battibaleno.
La vecchia le portò allo Zar, e Vassilissa ebbe un idea: si lavò, si pettinò, si vestì elegantemente e si piazzò davanti alla finestra. Poco dopo vide arrivare un messo dello Zar che disse alla vecchia:
“Dov’è quest’abile tessitrice? Sua Maestà lo Zar vuole ricompensarla di persona!”
Vassilissa si recò al palazzo e quando entrò lo Zar vedendola se ne innamorò a prima vista:
“Non ti lascerò più partire mia dolce creatura! Diventa mia moglie!”
Lo Zar prese per mano Vassilissa la bella, la fece sedere al suo fianco e celebrarono subito le nozze.
Ben presto il padre di Vassilissa tornò dal suo viaggio e fu molto felice della fortuna capitata a sua figlia ed andò a vivere con lei assieme alla vecchia signora.
E per tutta la vita Vassilissa portò con se, nella sua tasca, la sua fedele bambola.





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In un certo reame, ai confini della Terra, nell'ultimo degli stati, viveva una volta, uno zar forte e potente.
Questo zar aveva un giovane arciere, e il giovane arciere aveva un valente cavallo. Una volta l'arciere se ne andò a caccia nel bosco col suo cavallo; andò lungo la strada, la larga strada, ed ecco trovò una piuma d'oro dell' uccello di fuoco; come fiamma splendeva quella piuma! Gli disse il valente cavallo:
"Non prendere la piuma d'oro; se la prendi, un guaio ti attende!"
Meditò il prode giovane: raccoglierla o non raccoglierla? se la raccoglie e la porta allo zar lui lo ricompenserà generosamente; e a chi non è caro il favore di un re?
L'arciere non diede ascolto al suo cavallo, raccolse la piuma dell'uccello di fuoco, la portò e la presentò in dono allo zar.
"Grazie" disse lo zar, "e poiché sei stato capace di trovare una piuma dell'uccello di fuoco, trovami l'uccello stesso; e se non lo trovi, ecco la mia spada: che la tua testa cada!"
L'arciere versò calde lacrime, e andò al suo valente cavallo.
"Di che piangi padrone?"
"Lo zar mi ha ordinato di trovargli l'uccello di fuoco."
"Te l'avevo detto: non prendere la piuma, che ti metterà nei guai! Be', non aver paura, non affannarti; questa non è ancora una disgrazia, la disgrazia verrà dopo! Va' dallo zar e chiedigli che per domani vengano sparsi per i campi cento sacchi di granone."
Lo zar diede ordine di spargere per i prati cento sacchi di granone.
Il giorno dopo, all'alba, il giovane arciere andò su quel campo, lasciò il cavallo libero di passeggiare e lui si nascose dietro un albero. D'un tratto il bosco stormì, le onde del mare si agitarono: ecco volare l'uccello di fuoco; arrivò, si posò a terra e prese a beccare il grano. Il valente cavallo si avvicinò all'uccello di fuoco, gli posò uno zoccolo sull'ala premendo forte contro terra; il baldo arciere saltò fuori dall'albero, accorse, legò con uno spago l'uccello di fuoco, salì a cavallo e galoppò verso la reggia.
Portò l'uccello di fuoco allo zar; al vederlo, il sovrano si rallegrò, ringraziò l'arciere del buon servigio, lo ricompensò innalzandolo di grado , e gli affidò subito un altro compito:
"Sei stato capace di raggiungere l'uccello di fuoco, adesso trovami anche la mia fidanzata: nell'ultimo dei reami, ai confini della Terra, dove nasce il rosso solicello, c'è la principessa Vassilissa; è proprio di lei che ho bisogno. Se la trovi ti ricompenserò con oro e argento , ma se non la trovi ecco la mia spada: che la tua testa cada!"
L'arciere pianse amare lacrime, andò dal suo valente cavallo:
"Di che piangi, padrone? "domandò il cavallo.
"Lo zar mi ha ordinato di trovargli la principessa Vassilissa."
"Non piangere, non affliggerti; questa non è ancora una disgrazia, la disgrazia verrà dopo! Va' dallo zar, e chiedigli una tenda dalla cupola d'oro, e cibi e bevande per il viaggio."
Lo zar gli diede i cibi, le bevande e la tenda dalla cupola d'oro. Il prode arciere salì sul suo valente cavallo e partì per l'ultimo dei reami. Cammina cammina, arriva ai confini del mondo, dove il rosso solicello spunta dall'azzurro mare. Guardò e vide che sull'azzurro mare navigava la principessa Vassilissa in una barchetta d'argento e vogava con i remi d'oro. Il baldo arciere spinse il suo valente cavallo nei verdi prati a pascolare, a mangiar la fresca erbetta; lui intanto drizzò la tenda dalla cupola d'oro, dispose cibi e bevande varie, sedette nella tenda a mangiare, ad aspettare la principessa.
Vassilissa vide la cupola d'oro, e vogò a riva, uscì dalla barchetta ad ammirare la tenda.
"Salute, principessa Vassilissa!" dice l'arciere "Fatemi l'onore di accettare la mia ospitalità, di assaggiare i vini d'oltremare"
La principessa entrò nella tenda; cominciarono a bere, a mangiare, far baldoria. La principessa bevve un bicchiere di vino d'oltre mare, s'ubriacò e cadde in un sonno profondo.
Il prode arciere lanciò un grido al suo valente cavallo, e il cavallo accorse; subito l'arciere smontò la tenda dalla cupola d'oro, salta a cavallo, prese con sé la principessa Vassilissa addormentata e si mise in cammino, come una freccia scoccata dall'arco.
Arrivò dallo zar; quando vide la principessa il sovrano si rallegrò assai, ringraziò l'arciere del buon servigio, lo ricompensò con una grossa somma, e lo insignì di un grado altissimo.
La principessa Vassilissa si svegliò, apprese che si trovava ben lontana dall'azzurro mare, e cominciò a piangere, a languire, il suo viso cambiò completamente; per quanto lo zar la esortasse, tutto fu vano. Ecco che lo zar pensò di sposarla, ma lei disse:
"Lascia che quello che mi ha portato qui vada all'azzurro mare; in mezzo al mare c'è una grossa pietra, sotto quella pietra è nascosto il mio abito nuziale. Io non mi sposerò se non avrò quel vestito!"
Subito lo zar andò dal prode arciere: "Va presto ai confini del mondo, dove spunta il rosso solicello, là nell'azzurro mare si trova una gran pietra, e sotto la pietra è nascosto l'abito nuziale della principessa Vassilissa; trova quell'abito e portalo qua; è venuto il tempo di celebrare le nozze! Se lo trovi, vi ricompenserò ancor meglio di prima, ma se non lo trovi, ecco la mia spada: che la tua testa cada!"
L'arciere pianse lacrime amare, andò dal suo valente cavallo: " Questa volta," pensa, "non sfuggirò alla morte!"
"Di che piangi, padrone!" domanda il cavallo.
"Lo zar mi ha ordinato di cercargli sul fondo del mare l'abito nuziale della principessa Vassilissa."
"Ecco! te l'avevo detto: non prendere la piuma d'oro, che ti capiteranno dei guai! Suvvia, ora non temere: questa non è ancora una disgrazia, la disgrazia verrà dopo! Siediti su di me e andiamo all'azzurro mare."
Il baldo arciere arrivò ai confini del mondo e si fermò proprio sulla riva del mare; il valente cavallo vide un enorme gambero marino che strisciava sulla sabbia, e gli pose sul collo il suo pesante zoccolo. Disse il gambero marino:" Non uccidermi, lasciami vivere! Farò tutto quel che ti occorre!"
Gli rispose il cavallo "In mezzo all'azzurro mare giace una grossa pietra, sotto questa pietra è nascosto l'abito nuziale della principessa Vassilissa; portami quell'abito!"
Il gambero urlò con voce profonda per tutto l'azzurro mare; subito le acque ribollirono, da ogni parte s'arrampicarono sulla riva gamberi grossi e piccoli: una quantità prodigiosa! Il vecchio gambero diede loro un ordine ed essi si gettarono in acqua; un'ora dopo traevano dal fondo del mare, da sotto la grande pietra, l'abito nuziale della principessa Vassilissa.
Il prode arciere tornò dallo zar, portando l'abito della principessa; ma di nuovo Vassilissa s'intesta:
"Non ti sposerò" dice allo zar "finché non avrai dato ordine al giovane arciere di fare un bagno nell'acqua bollente."
Lo zar ordinò di riempire d'acqua un pentolone di ferro, di riscaldarla il più possibile e, quando fosse bollente, di gettarvi l'arciere. Ecco che è tutto pronto, l'acqua bolle, gli spruzzi volano; portarono il povero arciere.
"Che guaio, questa sì che è una disgrazia!" pensava "ah! perché ho preso la piuma d'oro dell'uccello di fuoco? Perché non ho dato ascolto al cavallo?" Si rammentò di lui e disse allo zar "Zar sovrano! permetti che prima di morire io dica addio al mio cavallo"
"Bene, vai a dirgli addio!" L'arciere andò dal suo valente cavallo, e pianse a calde lacrime.
"Di che piangi, padrone?"
"Lo zar m'ha ordinato di fare un bagno nell'acqua bollente"
"Non temere, non piangere, resterai vivo!" gli disse il cavallo, e presto fece un incanto sull'arciere, perché il bollore non nuocesse al suo bianco corpo.
L'arciere tornò dalla stalla; subito i lavoranti lo afferrarono e lo buttarono dritto nel pentolone; era diventato così bello da non potersi raccontare nelle fiabe, né descrivere con la penna. Quando lo zar vide ch'egli era diventato così bello, volle bagnarsi anche lui; come uno stupido scivolò in acqua e nello stesso momento si lessò.
Seppellirono lo zar, e al suo posto elessero il baldo arciere; egli sposò la principessa Vassilissa e visse con lei lunghi anni d'amore e d'accordo.







Un contadino arava un campo, venne da lui un orso e gli disse:
- Contadino, ti farò a pezzi!
- No, non farmi del male; vedi, sto seminando le rape, per me terrò solo le radici, a te invece darò le cime.
- E sia – rispose l’orso – ma se m’ingannerai, allora sarà meglio che tu non venga più nel mio bosco a fare legna!
Dopo aver affermato ciò, se ne tornò nella foresta.
Arrivò il momento della raccolta ed il contadino raccolse le rape, l’orso uscì dalla foresta.
- Ebbene, contadino, è ora di fare la spartizione!
- Bene, orsetto! Ti consegnerò le cime – e gli portò un carro pieno di cime.
L’orso rimase contento di questa onesta divisione. Allora il contadino caricò le sue rape e si recò in città per venderle, ma gli venne incontro l’orso:
- Contadino, dove vai?
- Ecco orsetto, vado in città a vendere le radici.
- Fammi un pò provare che tipo di radici sono!
Il contadino gli offrì una rapa. Appena l’orso l’ebbe mangiata esclamò:
- Ah-ah! – e si mise a brontolare – mi hai imbrogliato, contadino! Le tue radici sono belle dolci. Non ti arrischiare a venire da me a fare legna, altrimenti ti sbranerò!
Il contadino tornò dalla città ma ebbe paura a tornare nel bosco, bruciò palchetti, panchette e botticelle, ma infine, quando non ci fu più nulla da bruciare, dovette recarsi nel bosco. Entrò quatto quatto, e improvvisamente sbucò fuori una volpe che chiese al contadino:
- Perché contadino ti aggiri furtivamente?
- Ho paura dell’orso, che è infuriato con me e ha giurato che mi sbranerà.
- Non aver paura dell’orso, taglia la legna, io mi metterò a gridare come fanno i cacciatori ai cani: “ su, cercate, addosso “. Se l’orso ti chiede cosa succede, tu spiegagli che i cacciatori danno la caccia ai lupi e agli orsi.
Il contadino si mise a far legna, ma ecco che arrivò l’orso di corsa e gridò al contadino:
- Ehi, vecchio! Cos’è questo grido?
Il contadino rispose:
- Danno la caccia ai lupi e agli orsi!
- Oh, caro contadino, nascondimi nella tua slitta, coprimi con la legna e legami con una corda, di modo che pensino che io sia un tronco.
Il contadino lo mise nella slitta, lo legò con una corda, e con il manico della scure lo picchiò sulla testa fino a quando l’orso non fu definitivamente morto.
La volpe arrivò di corsa e chiese al contadino:
- Dov’è l’orso?
- Eccolo, è morto!
- Allora, mio caro contadino, devi farmi un regalo!
- Ma certo, cara amica volpe! Vieni con me, ti darò il regalo che ti meriti!
Il contadino salì sulla slitta, e la volpe correva davanti a lui; quando furono nei pressi di casa sua, il contadino, fischiò ai cani, e li aizzò contro la volpe. La volpe scappò nel bosco, si nascose in una buca e chiese:
- Voi, occhi miei belli, cosa avete guardato mentre io correvo?
- Oh, cara volpe, abbiamo badato che tu non inciampassi.
- E voi, belle orecchie, cosa avete fatto?
- Noi, invece, stavamo sentendo se i cani che t’inseguivano erano lontani!
- E tu coda?
La coda rispose:
- Ho sempre ciondolato tra le zampe, perché tu inciampassi, cadessi e in bocca ai cani finissi!
- Ah! Ah! Canaglia! Allora, che i cani mangino te.
Tirò fuori della buca la coda, poi la volpe si mise a gridare:
- Cani, mangiate la coda della volpe!
I cani tirarono la coda, e sbarnarono la volpe.

Spesso così succede: per una coda anche la testa cade.



Traduzione libera di Beowulf





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